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Cucina Romana: Sì, ma quale?

Che provengano dall’Europa, dall’Asia o dall’America, gli ospiti finora di Eitch Borromini manifestano il desiderio di conoscere la gastronomia locale autentica, nella sua migliore espressione. Oltre al ristorante della nostra Galleria d’Arte - ‘Terrazza Borromini’ - e la sua accurata selezione di alcuni di questi piatti, il Centro storico nel quale ci troviamo è pieno di trattorie che promettono “cucina romana”. Come orientarsi?
Certo: un buon indizio sarebbe la presenza (robusta) di clienti italiani, famiglie incluse, già seduti oppure in paziente attesa. Ma, per buona misura, ecco alcune cose da sapere.

Culture, terra e creativa povertà
Quello Romano è un impero, è questo significa un universo di influenze - anche in cucina. Ma solo una avrà abbastanza forza da fondersi con la gastronomia locale: quella Ebraica. Arrivata una prima volta ai tempi di Giulio Cesare, quando a Roma nasce la comunità più antica d’Europa, e una seconda volta in epoca rinascimentale, con i rifugiati dalla Spagna. I piatti più iconici? I celeberrimi Carciofi alla Giudia, il Tortino di alici e scarola, le frattaglie, la Torta di frutta secca e - last but not least - la famosissima Torta di ricotta e visciole.
Si parte da cereali, formaggi, legumi (soprattutto ceci), frutta ed erbe spontanee della campagna romana - come la rucola, la mentuccia, il lauro, il rosmarino e la salvia. Le carni nelle loro parti più pregiate sono per i ricchi: agli altri, rimane solo il cosiddetto “quinto quarto”. Cioè, gli zampetti dei maiali, le code dei buoi e le interiora degli ovini o dei vaccini. Le frattaglie, appunto, che daranno vita ad alcuni piatti da capogiro come la Coratella, la Trippa alla romana, le Animelle o la Coda alla vaccinara. Soprattutto quando fatte bene, come la tradizione comanda.
Una cucina da entroterra nonostante accolga presto anche pesci e molluschi. Una cucina intensa e vitale, che vuole la pizza bassa e croccante ai bordi e che riesce a creare gioia con davvero poco.

I capisaldi: i primi di pasta
Evitando camicie troppo bianche o cravatte troppo belle, e girando la forchetta con calma e attenzione, l’Amatriciana. Quella tradizionale, portata a Roma dagli abitanti di Amatrice e subito adottata dalla Città Eterna: bucatini o rigatoni (non spaghetti), guanciale (non pancetta) e pecorino (non parmigiano). Piatto che, se senza pomodoro ma con il pepe macinato fresco, diventa Gricia: l’Amatriciana bianca. E che, sempre senza pomodoro ma con l’aggiunta delle uova e l’apertura agli spaghetti, si trasforma nella Carbonara - la più (mal) imitata tra le ricette italiane all’estero.
Poi, ça va sans dire, c’è l’Arrabbiata: penne rigate, aglio, pomodoro, un bel po’ di peperoncino, una spolverata di prezzemolo fresco a crudo e, se desiderato, una grattugiata di pecorino romano sopra. Per i “puristi” invece, la Cacio e Pepe - che richiede una vera Arte in cucina per mantenere cremoso il formaggio: tonnarelli, solo pecorino romano e pepe, per uno dei piatti più poveri e buoni in assoluto. All’estremo opposto - la Zozzona, chiamata così perché esageratamente ricca. Nel senso che, per non buttare nulla, mette sopra della pasta corta - i rigatoni - tutti gli ingredienti avanzati dai precedenti piatti (guanciale, tuorli d’uovo, pomodoro e pecorino) e ci aggiunge la salsiccia di maiale. A meno di non avere a disposizione la Pajata - cioè l’intestino tenue del vitello da latte, da mettere sugli stessi rigatoni. Per lo stesso principio della cucina nata povera, che prima di sprecare il cibo s’inventa un altro piatto.
Infine, la Papalina - versione più carezzevole della Carbonara. Come il nome suggerisce, inventata per un Pontefice e che usa la pasta all’uovo (le fettuccine) con piselli saltati nel burro e la cipolla, dadini di prosciutto e una crema di uova, panna e parmigiano.

Guardate dunque, clienti e ingredienti. Oppure fatevi consigliare da noi mentre assaggiate i sapori italiani di terra e di mare nel nostro ristorante con vista dall’alto su Piazza Navona: le trattorie romane veraci non mancano.

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